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  • Il salmone di titanio (nato il 30/04/2023)


  • C’è questo Okami Sushi Point su via Albert Einstein. Un ragazzo, con gli occhi a mandorla e i capelli neri come il carbone, esce dalla cucina con afflosciato sulla spalla un pesce enorme. E’ un salmone. Il ragazzo dà le spalle alla sala dove qualcuno stacca le bacchettine di legno, qualcuno si versa la soia, qualcuno è già al caffè. A fianco al ragazzo del salmone, dietro il bancone, c’è una cassiera caucasica che guarda verso l’ingresso ticchettando con il dito sul fianco del registratore. Chinato sul bancone c’è un cameriere moro che scrive forsennatamente qualcosa con una Bic nera.
    Il ragazzo del salmone non guarda in faccia nessuno e sbatte il pesce sul tagliere vicino al lavandino. Si allunga oltre il rubinetto e prende un coltellaccio dalla coltelliera; è lungo, sottile, e ha il manico nero. Una coppia si avvicina alla cassa e la caucasica inizia subito a preparare il conto. L’uomo che scriveva si gira solo con la testa a dire qualcosa di incomprensibile al ragazzo del salmone. Questo gira solo la testa a sua volta e risponde, con una certa inflessione, sventolando il coltello. L’uomo con la Bic gli fa un verso, poi si raddrizza, passa dietro alla donna che prepara il conto e si immerge nella sala. Il ragazzo del salmone torna al suo pesce. Fa per ficcargli il coltello nel collo, ma le spalle gli si curvano. Esclama qualcosa. La caucasica e la coppia si girano a guardarlo. Lui fa di nuovo quella cosa con le spalle, quella cosa come se una mano enorme gli spingesse la nuca con il palmo, e poi si ferma. Nel frattempo il marito incalza la caucasica alla cassa con il bancomat tra le dita e allora la cassiera gli allunga il POS; la moglie intanto starnutisce, la caucasica le risponde salute!, questa ringrazia grattandosi il naso e i due se ne vanno. Poi la cassiera si avvicina al ragazzo del salmone. Lui le fa con le mani aperte un gesto come quando spieghi a qualcuno che non hai colpe. Ha il coltello stretto solo attorno al pollice (ha un pollice molto sottile). La donna lo fissa per un po’ e poi scoppia a ridere, le sopracciglia bionde vagamente piegate. Nel frattempo una seconda coppia si avvicina alla cassa: il marito è alto, avrà cinquant’anni — l’età peggiore per un uomo con un petto del genere — e il petto tutto grosso e gonfio; impugna la comanda. La caucasica, intenta a richiedere il coltello al ragazzo, non si accorge di loro, cosa che disegna sul volto del cinquantenne un’espressione tutta spiegazzata come quella di un Bulldog Inglese. Il Bulldog si schiarisce la voce e la caucasica si gira: vedendo quella faccia contorta e il modo in cui l’uomo strizza la carta nel pugno, lei si cancella rapidamente il sorriso e torna alla cassa. Mentre digita sul registratore le prime cifre, un urlo alle proprie spalle, seguito da un clonghio metallico, fa drizzare il capo a metà degli astanti, caucasica e Coniugi Bulldog compresi. Il ragazzo del salmone scaglia per terra il coltello, lo calcia, sventola le braccia per aria inveendo – in cinese – e sbatte le ante ballonzolanti della porta della cucina, attraversandole.
    Sparisce.
    Dall’altro lato della sala, l’uomo che prima scriveva con la Bic, tende le orecchie. Osserva la scena con quattro piatti in bilico sull’avambraccio e decide di andare a controllare, cercando di mascherare, con la solita impellenza dei camerieri, la propria reale preoccupazione; si lascia pure fermare sulla strada da un’anziana signora al tavolo 12 che chiede, cortesemente, un’altra acqua frizzante.
    Quando il cameriere con i piatti arriva al bancone, scivola dietro la caucasica alle prese con la Mastercard rifiutata dell’uomo con quel certo petto. Si piega, raccoglie il coltello come se avesse raccolto la collana di qualcuno, si guarda attorno e poi plana a fianco alla cassiera, discretamente in cerca di spiegazioni. Questa, chiedendo un secondo di pazienza al cinquantenne irascibile, si gira a confabulare con il collega che tira un’occhiata floscia al salmone, lì adagiato sul ripiano, completamente intonso, e che ascolta il racconto della caucasica con un’aria dapprima serissima. Solo in un secondo momento scrolla le spalle e ride dal naso, per poi esplodere in una risata grassa e gustosa che scatena di rimando anche quella della caucasica. A quel punto il cinquantenne fa squillare la fede nuziale sul ripiano del bancone, e dice qualcosa di un po’ cattivo. La caucasica si volge verso di lui chiedendogli, per cortesia, di stare calmo e l’uomo resta sbigottito: tira per aria l’indice e glielo punta prima addosso, poi alla sala, poi al proprio tavolo, poi allo scontrino del fallito pagamento, poi al POS e poi all'ingresso. La cassiera gli fa:
    “Guardi che io non so cosa dirle”
    E a quelle parole il cinquantenne prende un respirone e gli vengono negli occhi delle piccole striature. Alza la voce e si sporge in avanti sul bancone; la moglie interviene e lo inizia a tirare per il braccio, come un cane per il collare. Intanto, dietro i due clienti, si sono accodate, in una fila confusa e disordinata, altre persone. Se ne stanno tutte lì, comanda e portafoglio alla mano, ma nessuno presta attenzione alla scena del litigio, perché incuriositi da ciò che succede al di là della cassa. L’uomo che prima scriveva, infatti, continua a calare il coltello sul salmone senza riuscire a infilzarlo, come se stesse colpendo una palla da pilates con una mazza da baseball. Ha tutta la fronte sudata e si contorce in posizioni sempre più bizzarre per uno che sta cercando di tagliare un pesce. Una bambina esuberante allunga il capo per riuscire a vedere meglio lo spettacolo e suo padre si china a prenderla in braccio. Un vecchio scuote il capo, si toglie gli occhiali, se li pulisce tenendo le sopracciglia inarcate, poi se li rimette e ricomincia a scuotere il capo, ma stavolta più forte. All’ennesimo colpo, il coltello scivola sulle squame del salmone e ghigliottina il dito dell’uomo che prima scriveva. Questo urla. Il cinquantenne tace; sua moglie si tappa un grido sulla bocca con le mani e la caucasica sobbalza, voltandosi verso il collega, che si tiene stretto il dito sanguinante e aspira l’aria attraverso i denti digrignati facendo il suono dei gatti che soffiano. In quel momento le ante della cucina sfarfallano e risputano il ragazzo con i capelli neri, seguito da un altro soggetto: un mulatto piuttosto longilineo con un grembiule un po’ sporco. E’ il capo cuoco.
    La caucasica si muove per raggiungere il cameriere ferito, ma questi la respinge gobbo come un randagio e le sibila di starsene in cassa ché c’è fila, e la gente deve pagare. Lei avanza una protesta, ma viene fulminata con un’occhiata, e allora inspira e si rigira a strappare, finalmente, lo scontrino per il cinquantenne. Glielo pianta sul bancone e liquida la coppia con un cenno secco della testa e un’espressione che fa un po’ – solo un po’ – paura.
    Il cinquantenne sta dritto come una bestia che elabora un comando. Guarda il grumo di persone attorno al salmone con occhi larghi e sembra che abbia in viso meno pieghe di prima. Allora la moglie lo tira un po’ e lui la segue, senza dire nulla e senza scollare lo sguardo dal pesce.
    Intanto il mulatto longilineo piega i suoi due metri di altezza sul salmone e lo ispeziona con circospezione. Butta uno sguardo al collega ferito e osserva il suo sangue arrotolarsi attorno al getto di acqua fredda che sgorga dal rubinetto.
    Si raddrizza, stringe le mani dietro la schiena, riflette per qualche istante e poi chiama:
    “Chen!”
    Chen – il ragazzo asiatico dai capelli neri come il carbone – tira su la testa; guarda il mulatto; appoggia le garze che stava tirando fuori da sotto il bancone per il ferito e marcia verso il cuoco. Gli arriva di fianco. Il cuoco indica il salmone, indica qualcosa di non ben definito a metà tra il coltello per terra e il lavandino e poi incrocia le braccia al petto: sembra un colonnello. Chen si mette a gesticolare. Sventola le braccia e si dimena e protesta con una potenza che nessuno avrebbe mai attribuito alla sua minuta figura. In un gesto di stizza, pianta una mano sotto la pancia del salmone e gli dà uno strattone verso l’alto, come si fa quando alzi un guizzo d’acqua al fiume. La caucasica continua a sfornare scontrini, ma tra un cliente e l’altro, si gira a controllare prima il dito del collega e poi i movimenti di Chen e del mulatto. Certa gente, invece di andarsene, esita sull’ingresso e poi resta in appostamento. Altra gente, come la signora a cui non è mai arrivata l’acqua al tavolo 12, si avvicina con velleità polemica all’area-cassa, ma poi si lascia catturare dall’interesse della folla e resta avviluppata nella vicenda.
    Ad ogni scontrino strappato, la caucasica si gira con più foga, tanto che ad un certo punto inserisce per errore un triplo menù al vecchio con gli occhiali che prima scuoteva la testa – la scuote tuttora – il quale, però, non si accorge di niente e paga tutto con una banconota da cinquanta; resta con i gomiti appoggiati al bancone e di tanto in tanto si stuzzica la barba.
    Vedendo il cameriere ferito litigare con la garza adesiva, la caucasica decide di abbandonare la cassa e gli si avvicina. Riesce solo ad aiutarlo a strappare un pezzo, prima di essere nuovamente respinta in malo modo. Così strizza gli occhi, scuote il capo e poi raggiunge il cuoco mulatto che continua ad esaminare il pesce raschiandosi il lato del mento barbuto con le unghie. Lei raccoglie il coltello, che ancora sta per terra, e si fa spazio tra Chen e il cuoco. Il cameriere ferito si rigira la garza adesiva per l’ultima volta attorno alla fasciatura, la saggia con la punta del pollice e si ricongiunge con il gruppo.
    La caucasica infila lentamente la punta del coltello sotto il fianco del salmone e lo solleva dal tagliere come fai con un masso sotto cui ti aspetti di trovare delle formiche (non ne trova). Poi lo riadagia sul tagliere. Fa un rumore con la lingua e poi, con la punta del coltello, prova a punzecchiarlo.
    La bambina che non ci vedeva, ora se ne sta sulle spalle del padre e fa risuonare due colpetti entusiasti sul suo capo pelato; un paio di ragazzetti si danno di gomito; la signora del tavolo 12 tiene le labbra chiuse come se ci avesse dentro tutta l’acqua che nessuno le ha portato, e sta dritta con la schiena a cercare di capire cosa succede oltre il groviglio dei curiosi.
    Il coltello della caucasica, sondando il pesce, fa un rumore normale, ovvero quello che dovrebbe fare la punta di un qualsiasi coltello se picchiettasse le squame di un qualsiasi pesce. Ma quando poi la donna prova a fare più pressione, non succede niente di quello che accade quando un coltello qualunque viene conficcato nella pelle di un pesce qualunque: la punta entra nel salmone, ma non lo penetra. E’ come se fosse un palloncino, annuncia. Solo che è un palloncino di titanio: non si buca.
    Un brusio concitato dilaga per la sala. Qualcuno si permette addirittura di ridere, ma viene subito ripreso.
    “Ne ho abbastanza.” dichiara il capo cuoco.
    Si gira e colpisce le ante ballerine della cucina. Sparisce per qualche secondo, si sente un vociare impastato; tutti stanno a guardare, tesi. Il cuoco fuoriesce dalla cucina brandendo una mannaia tozza e scintillante. Al suo seguito compare un secondo cuoco: un Peruviano con le braccia robustissime, pochi capelli sulla testa, ma due baffi foltissimi. Ha l’aria di uno che è stato tirato in mezzo a un guaio. Passa in rassegna la stanza con lo sguardo: il salmone, i colleghi, il coltello, il dito bendato, i clienti affollati alla cassa (ora nessuno con il portafoglio tra le mani), e infine di nuovo il salmone. Il cuoco porge la mannaia al Peruviano e gli dice di calcolare due o tre dita sotto alle branchie e di colpire lì con forza.
    “¿Porque?” borbotta lui.
    Il cameriere ferito viene percorso da una fiammata in viso: ha una vena al centro della testa che pulsa come un alieno. Si afferra la mano malconcia e prende a sventolarla in direzione del Peruviano, anche se presto si concentra solo a maledire il salmone. Gli occhi gli si fanno timidamente lucidi. La caucasica lo cinge con il braccio: gli dà qualche pacca sulla schiena e gli fa shhh shhh con la bocca.
    “¡Cortalo!” grida qualcuno al Peruviano dal fondo della stanza.
    Cala di nuovo il silenzio.
    Il capo cuoco guarda negli occhi l’aiuto cuoco. Gli spinge tra le braccia la mannaia.
    “Cortalo” gli intima, quasi fosse una minaccia.
    Il viso del Peruviano resta impassibile per qualche istante. La sala tifa silenziosamente per lui, tutta la sala: donne, uomini, vecchi, bambini. E lui lo sa. Lo sa bene. Non si sentiva così dai tempi del Derby del 1978, quando era in porta e doveva parare un rigore decisivo. Non aveva fallito allora, non avrebbe fallito adesso.
    Il Peruviano impugna la mannaia e si muove verso il tagliere. I colleghi fanno un passo indietro: il capo cuoco si frappone tra personale e salmone come una guardia che protegge un Vip dalla calca. I clienti mormorano, spingono; la gente appende le mani alle spalle degli altri per vedere meglio; un ventenne scommette cinque euro con l’amico sull’impenetrabilità del Salmone di Titanio. Il Peruviano robusto pianta le gambe per terra e inchioda la mano sinistra al ripiano. Fissa un po’ il punto in cui dovrebbe colpire, adagia la lama tre dita sotto alle branchie del salmone; la sua concentrazione ronza nel silenzio. Prende un grosso respiro.
    Poi alza con un gesto secco l’arma e la abbatte senza pietà sul salmone. La gente mormora e quando la mannaia colpisce la creatura, il brusio si apre in un grido bizzarro. C’è chi si infuria, c’è chi ride istericamente… c’è chi si intasca cinque euro e poi galoppa verso l’uscita. Al vociare della sala si aggiunge, ma nessuno lo avrebbe mai sentito in quel momento, il tintinnio delle campanelle a forma di polipo appese alla porta d’ingresso che si apre e si chiude.
    E’ uno scandalo: invece di tranciare il salmone, la mannaia è rimbalzata come un martello sull’incudine, andando a colpire il Peruviano sullo zigomo butterato, e lasciandogli un segno che domani avrà sicuramente un colore bluastro.
    “¡PUTA MADRE!” ringhia il Peruviano, nella voce una miscela esplosiva di furia e imbarazzo.
    Si prende il grembiule e lo schiaffa sul bancone, come se avesse rinunciato a qualcosa.
    “Come?! Come è possibile?!” strilla il capo cuoco facendo battere i palmi sulle cosce e ficcandosi le mani tra le radici dei capelli.
    L’uomo che si era tagliato il dito – o meglio l’uomo a cui il salmone aveva tagliato il dito, poiché l’intera colpa alla fine era da imputare solo ed esclusivamente al salmone – viene percorso da un’ondata di calore fulminea. Si libera dalla stretta della caucasica, dà una spinta al capo cuoco e afferra il corpo del pesce con la schiena grossa di chi sta per scagliare un giavellotto lontano. Un paio di persone sulla traiettoria del siluro gettano a terra il busto come la testa degli struzzi e qualcuno dal fondo delle file grida un Oh!!
    Il cameriere ferito respira affannosamente e ha una posa un po’ bestiale, scimmiesca. Osserva, insieme a tutto il pubblico della sala, l’enorme chiazza viscida disegnata dal salmone sulla parete bianca su cui si è schiantato; a differenza degli altri, lui ha l’aria di guardare qualcosa con cui litiga da tutta la vita.
    In quell’esatto istante i polipetti all’ingresso di nuovo tintinnano e ora tutti i presenti tendono le orecchie ad ascoltarli: si girano verso la porta e vedono ergersi sulla soglia i due ventenni con al seguito un muratore confuso e incerto – ma con in tasca cinque euro freschi.
    Tutti fissano il muratore senza fiatare, mentre il muratore, squadrando la sala, adocchia la chiazza sul muro e fa scivolare gli occhi sulla parete fino a scorgere il salmone per terra.
    “Fagliela vedere” bisbiglia il ventenne a destra.
    Il muratore abbandona il cadavere del pesce e si volta verso la propria sinistra con la faccia di uno che è sempre meno convinto si tratti di uno scherzo. Posa a terra la cassetta di plastica nera e gialla, ci si china a fianco, fa schioccare la chiusura e la apre. Quando tira fuori una sega elettrica, una massa di sguardi si sposta in direzione del capo cuoco mulatto, in piedi con il suo corpo longilineo girato verso il muro, ma con la testa voltata verso l’ingresso; ha la fronte scavata da canaletti di sgomento, ma, vedendo lo strumento, la pelle gli si distende. Si passa una mano sulla guancia ruvida con una pressione un po’ eccessiva e fa un cenno di assenso. La vecchia dell’acqua frizzante allora fa un passo avanti, si inginoccia, raccoglie il salmone e lo passa al vicino. Mentre il muratore si fa largo tra la folla, una catena umana di mani tremanti restituisce il salmone al patibolo: Chen si impossessa del condannato e, sorreggendolo a palmi aperti, lo riposiziona sul tagliere.
    Pochi secondi dopo, dietro il bancone, la sega elettrica frinisce, pronta per l’utilizzo. Il muratore fa per abbassarsi gli occhiali protettivi, quando si sente gli occhi del cuoco pesare sulla spalla. Toglie il dito dall’interruttore, la sega si spegne e lui si gira verso il mulatto, incontrando un’espressione sconcertata.
    “Sicuro che quelli servano? E’ solo un salmone…” mugugna il capo cuoco.
    Il muratore lo scruta con una sorta di vibrazione nelle pupille. Poi, con un gesto dell’indice, si fa cadere gli occhiali direttamente sul naso e rimette il dito sull’interruttore.
    Fracasso.
    La sega gira e incombe sul salmone, circa a due spanne di altezza, abbassandosi con una certa inesorabilità. Il pubblico osserva teso come le orecchie di un cervo, il personale se ne sta di nuovo un po’ nascosto dietro al cuoco mulatto. La caucasica fa ancora le carezze al cameriere ferito, un po’ perché ha paura che possa lanciare qualcos'altro e un po’ perché, sotto sotto, le è sempre piaciuto il modo in cui sorride e quello le sembra un ottimo frangente per fargli delle coccole che, senza il salmone, non si sarebbe mai spinta a proporgli. Il Peruviano, solo vicino alle porte della cucina, osserva il tutto con i baffi arruffati, la fronte accigliata e le braccia conserte. La sega si avvicina sempre di più al salmone che ha un fianco tutto un po’ rigato come la portiera di un'auto dopo un sinistro stradale. Il muratore per un secondo si chiede se l’intera faccenda non sia solo un’allucinazione dovuta allo spinello fumato mezz’oretta fa.
    Poi, il contatto.
    Sprazzi di scintille si alzano in aria, la folla urla, uno scalpitio sposta la mandria indietro di qualche passo, le lucine saettano negli occhi della bambina sulle spalle del padre. La catena della sega salta, si spezza e lo strumento emette un rantolo malato, mentre un angolo del grembiule del Peruviano, da lui buttato sul ripiano, si incendia.
    “Oh!!” grida Chen, saltando oltre il bancone e correndo verso l'estintore, frattanto che il Peruviano tenta di sedare le fiamme. Una scintilla ballerina volteggia fino sul baffo del Peruviano e un odore acre di peli bruciati riempie di colpo la stanza, mentre Chen ripiomba in zona brandendo l’estintore.
    Il cameriere ferito ulula, fa dei versi, ringhia; non ce l’aveva davvero, ma se qualcuno, con una matita, gli avesse disegnato la bava alla bocca, in nessun caso si sarebbe potuto dire che stonava.
    Il salmone – freddo, immobile e integro – viene sommerso da una valanga di schiuma bianca e gli resta fuori solo la testa con quell’espressione laconica dei pesci morti, anche se il vecchio con gli occhiali – ancorato in prima fila al bancone – è abbastanza convinto di avergli intravisto una specie di sorriso.
    Il muratore stringe quel che rimane della propria sega e la fissa con la bocca aperta, senza capire, pietrificato, finché uno strattone improvviso del Peruviano lo squassa come un albero e lo volta verso sé per le bretelle della salopette. Con gli occhi di un gorilla impazzito, mezzo baffo che fuma e i pugni chiusi attorno alle bretelle del muratore, il Peruviano gli sbrana la faccia di recriminazioni in spagnolo, e il capo cuoco e Chen, preoccupati per l’incolumità del muratore, ancora catatonico come se qualcuno gli avesse succhiato via il sistema nervoso con una cannuccia, si pressano contro il ventre tondo del Peruviano quasi stessero spingendo il muso di un treno.
    Mentre  qualcuno tra la folla medita di intervenire e il padre cerca di strapparsi la figlia dalla spalle per avviarsi verso l’uscita prima che le cose si mettano male, una voce si libera dal fondo della stanza e, per qualche motivo, tutti improvvisamente tacciono, si fermano e ascoltano.
    “Ma perché non lo buttate via e basta?”
    Le teste si voltano con un fruscio verso quest’uomo tarchiato, con un certo petto gonfio e un viso tutto un po’ aggrottato, in piedi in controluce davanti al vetro dell’entrata quasi fosse l’eroe di un qualche film Western.
    Chen e il cuoco mulatto, ansimando schiacciati contro l’ombra sudata del Peruviano, fissano il cinquantenne irascibile in silenzio e poi si lanciano un’occhiata. Tirano lo sguardo in su e incontrano, oltre il suo mento e i suoi – mezzi – baffi, quello deformato del grandissimo cuoco. Questi li studia per un attimo. Poi sposta gli occhi sulla faccia pallida del muratore. Certo, lo guarda come se ancora volesse ucciderlo, però alla fine gli molla le bretelle e lo lascia andare. Il capo cuoco e Chen, liberati dal peso del Peruviano, oscillano un po’ come pioppi.
    Un pianto, seguito da un rumore legnoso, attira l’attenzione dei presenti che seguono la figura del cameriere ferito tramontare oltre il bancone, il viso nascosto tra le mani e i singhiozzi che gli inarcano la schiena. La caucasica lo segue a sedere.
    Qualche secondo più tardi un tonfo soffocato accoglie il salmone, acciaccato, ma intonso, pieno di schiuma bianca, tra gli altri rifiuti.
    Leggende narrano che, ad oggi, il salmone sopravviva, solido come una corazzata, appeso sopra al camino di una qualche baita in legno affacciata sul Lago d’Orta.