Quando la fioca luce del lampione traballò teatralmente, George Martens ebbe un sussulto.
Volse lo sguardo alla lampada che sfrigolava, preoccupato che sarebbe morta in poco lasciandolo immerso nell’oscurità.
Ma ciò non accadde.
Sospirò sollevato e continuò ad avanzare per la sua strada.
Si guardava attorno guardingo; a tarda sera, infatti, le vie erano vuote e desolate e i vicoli bui celavano ignote minacce.
Ad un tratto un tonfo metallico.
George Martens si voltò di scatto in direzione del rumore.
Il cuore pulsava forte.
Vide due gatti.
Erano magri e spelacchiati, uno era nero, l’altro era marroncino tendente al grigio.
Frugavano rumorosamente in un cassonetto, sul retro di una locanda chiamata “Chez Pascal”; sotto l’appellativo della bettola vi era la precisazione: “carni e pesci in quantità, per un palato raffinato”.
George Martens si chiese se si trattasse di un punto di ristoro o un negozio di alimentari.
Osservò i gatti nella penombra della viuzza.
Passò oltre.
Si sentiva seguito. Si sentiva osservato.
Affrettò il passo.
Il freddo della notte era pungente e gli pizzicava il naso e le guance.
Finalmente giunse alla sua meta.
Si piazzò di fronte ad un massiccio portone.
Alzò lo sguardo ad osservare l’insegna luminosa e sfavillante del locale, come ad accertarsi che si trattasse del posto giusto, anche se in cuor suo non aveva neppure un’incertezza.
Alzò il pugno e lo batté fugacemente sul portone.
Ricacciò istantaneamente la mano in tasca e gettò un’occhiata attorno a sé, per accertarsi di essere solo.
Sperò che nessuno l’avrebbe visto entrare in quel posto.
Si vergognava molto infatti di entrare in un luogo del genere, ma non avrebbe mai potuto fare altrimenti, per cui si limitò a sperare che gli avrebbero aperto in breve.
La porta si aprì rapida in uno spiraglio con un botto soffocato.
George trasalì.
Uno spicchio di viso si affacciò scrutandolo dalla testa ai piedi.
George estrasse dalla tasca un foglietto e lo mostrò all’uomo.
Questo allora grugnì e poi spalancò il portone.
Era un uomo nerboruto e massiccio, con le spalle larghe e le braccia grosse. Indossava una camicia bianca, un paio di pantaloni scuri ed un gilet nero.
George deglutì e si inoltrò nel lungo corridoio fiocamente illuminato.
Si girò ad osservare l’uomo nerboruto, che lo fissava allontanarsi accigliato e a braccia conserte.
I bassi di un’indefinita musica ad alto volume risultavano soffusi in lontananza, ma, man mano che ci si avvicinava alla fine del corridoio, aumentavano d’intensità facendo vibrare le pareti e le luci rosse e viola dei neon che lo costellavano.
George percorse il corridoio fino in fondo.
Scostò poi due pesanti tende in tessuto rosso e si ritrovò nel cuore del locale.
C’erano alcuni neon che lampeggiavano ad intermittenza, qualche lampada piazzata qua e là in punti strategici emanava un debole lume.
L’illuminazione complessiva bastava a stento a riconoscersi in viso.
Strizzò gli occhi adattandoli alla penombra.
Gli passò davanti una donna quasi del tutto svestita, che portava con sé un vassoio pieno di bicchierini colmi di una brodaglia traslucida.
Non riuscì a trattenersi dall’osservare le sue grosse natiche in bella mostra, ma scostò subito lo sguardo, perché si vergognò della propria sfacciataggine.
Sgusciò veloce fino a raggiungere un tavolo dove sedersi.
Ce ne erano pochi, in realtà, una ventina al massimo, e di questi solamente tre erano occupati.
Ad uno sedevano tre uomini, vestiti in giacca e cravatta.
Sul ripiano della loro tavola erano sparsi alcuni fogli.
Gli uomini eleganti conversavano animatamente con serietà mentre bevevano, anche se ogni tanto ridevano di gusto e si mettevano a guardare le cameriere o la ragazza che danzava sensualmente attorno ad un palo al centro del locale.
George distolse lo sguardo da quei tre e osservò la ragazza del palo.
Aveva bei lineamenti, lunghi capelli biondi e riccioluti e non era troppo alta.
Constatò che si trattasse di una fanciulla estremamente giovane, si poteva addirittura dubitare che fosse maggiorenne...
Danzava, ma non pareva molto lieta di ciò che faceva, al contrario sembrava molto stanca e triste.
Poveretta, pensò George.
All’altro tavolo, praticamente sotto alla pista dove ballava la fanciulla, sedevano due uomini con vestiti colorati e collane dorate. Uno dei due indossava un cappello.
Fumavano dei sigari e bevevano e parlavano a voce alta ridendo sguaiatamente di tanto in tanto ed incitando la giovane che danzava.
Il posacenere al centro del tavolo straboccava di mozziconi di ogni tipo, alcuni ancora fumanti, altri già estinti.
Chissà da quanto erano lì, si domandò George studiandoli con disappunto.
Osservavano la ragazza muoversi, fischiando ed urlando, con in viso stampata un’espressione bramosa e viscida.
Ogni tanto quando passava una qualche cameriera la schiaffeggiavano sulle natiche.
George smise di guardarli; gli davano il voltastomaco, quasi lo turbava la consapevolezza di appartenere al loro stesso sesso.
Volse invece la propria attenzione verso il terzo tavolo.
Vi sedeva un uomo con il capo accasciato sul ripiano, un braccio steso con il palmo della mano poggiato sulla superficie liscia, l’altra mano stringeva un bicchiere mezzo vuoto.
Si poteva intravedere un’espressione smunta e sfinita appesa al suo volto.
Una spogliarellista gli passò accanto, facendo ticchettare i lunghi tacchi a spillo sul pavimento; il rumore lo destò, alzò la testa pesantemente e sollevò una palpebra a fatica. Constatò che non fosse successo nulla di importante e allora si rigettò sul tavolo.
George lo osservò con rammarico e compassione, chiedendosi cosa gli fosse accaduto per ridurlo così. Smise di studiare l’uomo dormiente, portando nuovamente lo sguardo altrove.
Osservò le spogliarelliste avanzare con vassoi e servire ai tavoli, e le osservò uscire o entrare con alcuni uomini dai camerini in fondo al locale.
Una donna gli si avvicinò:
“Cosa vuoi da bere, tesoro?” domandò con voce suadente.
“Nulla da bere, grazie...” rispose George continuando la sua ricerca, senza prestare troppa attenzione alla donna.
“Oh, vedo che sei uno che va dritto al sodo...” ridacchiò.
Alchè George la squadrò con sgomento.
“No, mi scusi, non intendevo...” sospirò. “Sono qua per una persona...”
“Oh...” esclamò con una punta di delusione la donna.
“Mi saprebbe dire dove posso trovare Sophie Curie?”
La spogliarellista fece una smorfia e parve indecisa.
George, vedendo la sua esitazione, estrasse dalla tasca una banconota da venti e gliela porse.
La donna la fissò. Con un gesto fluido e felpato la arraffò e se la ficcò nel reggiseno di pizzo.
“Te la chiamo.” disse languidamente allontanandosi.
George sospirò con trepidazione.
Intinse la mano nella ciotola di pistacchi sul suo tavolo e ne mangiucchiò qualcuno.
Osservò al tavolo del signore dormiente. Era ancora steso come prima.
Osservò il tavolo degli uomini in giacca e cravatta, che ancora discutevano come poco prima.
Osservò il tavolo degli uomini viscidi.
Stavano litigando con una cameriera.
Quello con il cappello la afferrò per un polso e lei lo respinse subito.
L’uomo allora la spinse lontano inveendo e accendendosi l’ennesima sigaretta…
“Cosa ci fai qui?” George sobbalzò.
Si voltò di scattò; il cuore prese a scalpitare.
“Ciao.” biascicò.
“George che ci fai qui?” ripeté la voce con stizza.
“Ti vorrei chiedere la stessa cosa.” ribatté George con tono fermo.
La ragazza sembrava in procinto di dire qualcosa, ma rimase zitta.
“Non sapevo che lavorassi qui. Non me l’hai mai detto...” disse George.
“Non ce ne era bisogno.”
“Beh, forse si.” la contraddisse.
“Cosa vuoi?” tagliò corto lei.
“Sophie, perché te ne sei andata?” le chiese con decisione.
Sophie non rispose. Lo guardava fisso.
“Perché mi hai lasciato all’improvviso senza farti più sentire? Perché sei sparita?”
Sophie tacque ancora incerta.
“Senti, se tra noi non funzionava, se mi fossi in qualche modo comportato male, avrei accettato con serenità di smettere di vederci, ma mi hai abbandonato all’improvviso senza spiegazione... non sono arrabbiato con te, affatto, vorrei solo capire...”
Sophie pareva una statua di marmo.
“Siediti. Dimmi cosa non va…” la incitò George.
Sophie esitò; si guardò attorno. Poi con un gesto secco, piombò sulla sedia.
George la guardò, indossava un reggiseno rosso, che si congiungeva ad uno slip vermiglio di pizzo; portava delle calze nere a rete e un paio di scarpe con tacchi a spillo.
In testa aveva una specie di cerchietto con un fiocco, quasi ridicolo.
George non l’aveva mai vista conciata così; non credeva ai propri occhi.
“Perché mi guardi così?” domandò piccata. Eppure George, che la conosceva, sapeva che nel profondo l’insicurezza la stava divorando.
George sorrise.
“Perché sei bella, anche se quel fiocco non te lo vedo proprio addosso...”
Lei sorrise lievemente, ma si ricompose subito. Rimase a lungo zitta, a guardare per terra. Poi gettò un’occhiata fugace attorno a sé ed infine alzò due occhi innocenti. Ecco: ora George la riconosceva.
“George sono nei guai...” bisbigliò.
George percepì la gola annodarsi: il suo più grande timore si tramutava in cruda realtà.
“Quali guai?”
Sophie sospirò preoccupata.
“Li vedi quei due uomini laggiù?” Chiese incerta in un sussurro.
George annuì senza toglierle gli occhi di dosso.
“Sono i padroni del posto. Quando hanno scoperto che mi vedevo con te mi hanno minacciata: hanno detto che se non avessi smesso di frequentarti… ti avrebbero fatto del male. Pensano di essere i nostri proprietari, di tutte noi...” fece una smorfia; inghiottì una lacrima.
George ascoltava con avida apprensione.
Gettò un’occhiata ai due uomini. Si accorse che li fissavano con sguardi cupi.
Sophie si alzò di colpo.
“Dove vai?” chiese George.
“Se mi vedono seduta al tuo tavolo chissà che mi fanno...” ansimò. Fece un gesto strano, come a scacciare un insetto fastidioso, si voltò per andarsene. George si slanciò verso lei; le afferrò la mano.
“Sophie vieni via. Vieni con me. Ce ne andremo lontani dove non ci troveranno. Non devi stare qui. Tu meriti di più, molto di più...”
Sophie sorrise in un modo un po’ storto, gli si avvicinò e gli accarezzò una guancia.
George socchiuse gli occhi.
Allora Sophie disse qualcosa: “Seguimi.”
I due si alzarono.
Sophie lo accompagnò verso i camerini in fondo al locale.
All’entrata c’era un uomo alto e robusto, di pelle scura.
Guardò George sospettoso mentre entrava con Sophie.
Passarono una tenda che celava una stanza lunga e stretta suddivisa in sei camerini, tre da un lato, tre dall’altro.
Si udivano dei mugolii e dei rantoli.
Sophie e George si infilarono in uno di essi, e lei chiuse la tenda.
Dentro c’era un semplice divanetto rosso.
I due si sedettero.
“Perché mi hai portato qui?” chiese George con una punta di eccitazione.
“Perché qui non possono vederci...” disse.
Sembrava più rilassata, ora che erano soli.
Sophie lo ammirò con una dolcezza ritrovata.
Portò le mani al colletto della sua camicia.
“E’ sempre stropicciato…” sorrise.
“Si…” bisbigliò George.
Stava fermo e si lasciava carezzare.
Sophie finì di lisciare il colletto, poi abbandonò le mani sul suo petto.
“Mi manchi...” singhiozzò.
George prese le sue mani e le strinse.
“Andiamo via, andiamocene adesso: non ci troveranno mai, e se anche dovessero, io ti proteggerò ad ogni costo.” disse.
Sophie scuoteva il capo combattuta.
“Fernando e Sisco- i buttafuori- non ci lasceranno mai uscire insieme, nessuna di noi può uscire accompagnata da un uomo prima della fine del turno, a meno che non si tratti di uno dei padroni.” spiegò.
“Ho un’idea.” s’illuminò George.
“Sarebbe?” domandò speranzosa lei.
“Chiedi ad uno dei padroni di uscire. Tu e lui. Fingi di essere interessata. Io ti aspetterò fuori. Non appena uscirete dalla porta ci libereremo di lui e scapperemo insieme.”
Sophie rimase interdetta.
“Non funzionerebbe...”
“Ci possiamo sempre provare!” esclamò George.
“Abbassa la voce!” lo richiamò Sophie.
“Scusami.” balbettò George.
Sophie rise.
Anche George.
Si baciarono.
“Va bene.” accettò Sophie infine. “Tentiamo.”
I giovani uscirono dal camerino ed entrarono nella sala principale.
George si accinse a raggiungere il corridoio che portava all’ingresso.
Gettò un’occhiata agli uomini in giacca e cravatta, all’uomo dormiente e infine al tavolo dei padroni.
Gli parve che quello col cappello lo stesse osservando di sottecchi.
Si affrettò ad andarsene.
Si allontanò entrando nel corridoio. In fondo ad esso, davanti alla porta, seduto, se ne stava Sisco -il buttafuori. Si alzò quando si accorse dell’arrivo di George, ma rimase immobile come una statua quando se lo trovò dinnanzi.
“Arrivederci...?” disse incerto George.
Il buttafuori lo scrutò da capo a piedi minacciosamente.
“Arrivederci” sbottò d’improvviso con una vociona grave e cupa.
Aprì la porta e George si dileguò rapido.
Quando fu fuori sospirò di sollievo.
Si poggiò con la schiena contro al muro dell’edificio.
E si mise ad aspettare.
Ed aspettò.
Ed aspettò ancora.
E aspetto ancora e ancora.
Passò mezz’ora.
George rimaneva impassibile.
Passò un’ora.
Iniziò, a quel punto, a chiedersi cosa fosse accaduto. Fu tentato di entrare per accertarsi che andasse tutto bene, ma pensò che, forse, se lo avesse fatto, avrebbe potuto compromettere l’intera operazione.
Divenne irrequieto.
Trasse un lungo sospiro.
Ed attese fino a notte inoltrata.
Ad un tratto si accorse che le spogliarelliste iniziavano man mano ad uscire dal locale.
Uscì la donna alla quale aveva allungato la banconota da venti.
Uscì la ragazza che danzava sul palo.
Sbucarono anche i tre uomini in giacca e cravatta.
Se ne andò in ultimo l’uomo che si era addormentato sul tavolo, con il bicchiere tra le mani.
Alle due del mattino George ancora indugiava davanti all’entrata senza sapere cosa fare e senza spiegarsi cosa potesse essere accaduto per provocare quel colossale ritardo.
Sophie era sempre stata puntuale da che la conosceva, eppure non si era ancora presentata.
All’improvviso la porta si aprì bruscamente facendolo trasalire.
George si allontanò d’impulso; uscivano i due padroni. Parlavano tra loro ad alta voce con un tono acido, in una lingua sconosciuta. George si distanziò ancora di più, tentando di nascondere il proprio viso. I padroni erano seguiti dai due buttafuori. Sisco, lasciato per ultimo, chiuse a chiave la porta. Poi fece per allontanarsi, quando notò George.
Lo fissò.
Fece una smorfia di disapprovazione.
George congiunse le mani in preghiera, supplicandolo in silenzio di aiutarlo in qualche modo.
Allora il buttafuori sospirò e sciolse lievemente il broncio che aveva tenuto tutta la serata.
Lasciò cadere la chiave a terra.
Gli intimò di entrare.
Poi raggiunse gli altri.
George sentì l’angoscia pervadere la propria anima, il cuore iniziò a battere all’impazzata nel suo petto.
Quando i quattro uomini vennero inghiottiti dalla foschia buia della notte, egli corse a raccogliere la chiave. La ficcò con energia nella serratura e si precipitò lungo il corridoio. La musica non c’era più.
Arrivò in fondo trafelato e scostò le tende in tessuto rosso.
Nel locale, ora deserto, restavano vive solo le lucine dei neon colorati.
L’aria era pesante e calda.
“Sophie!” chiamò George in un bisbiglio.
Nessuno rispose.
“Sophie!” chiamò di nuovo.
Respirava con affanno, le gambe tremavano.
Pattugliò la stanza principale, cercò dietro il bancone del bar, nei bagni, ma non la trovò.
Rimase immobile per un momento guardandosi attorno costernato.
D’un tratto s’illuminò.
Si precipitò nei camerini.
“Sophie!” la chiamò ancora in un sussurro.
Notando che nessuno rispondeva si mise a perlustrarli uno ad uno.
Le tende di ognuno erano aperte.
Il primo era vuoto.
Lo era anche il secondo, così come il terzo.
George ansimava.
Cercò nel quarto e nel quinto ma nulla.
E poi giunse nel sesto in fondo, quello dove erano stati anche loro.
La trovò stesa sul divanetto rosso.
Era piena di sangue in viso, il labbro inferiore tagliato e rigonfio, il naso sanguinante, un occhio mal concio, tumefatto.
I polsi e le braccia lividi.
Le si avvicinò.
Le passò una mano sui capelli, con una tale delicatezza che il suo palmo si fece velluto.
“Sophie?” sussurrò allarmato.
La ragazza allora si mosse di scatto.
George sospirò di sollievo.
“Oddio...!” scoppiò in lacrime.
Sophie tentava di parlare, ma non ci riusciva.
George si tolse la giacca e gliela mise addosso.
La prese in spalla; Sophie si lamentò quando il giovane la toccò.
“Adesso ti porto via...” sussurrò George in un singulto.
La tenne in braccio portandola fuori dallo strip club.
Si avventurò nella notte fonda passando per i vicoli bui ed insidiosi.
Sorpassò barcollando la bettola “Chez Pascal”.
Nel vicolo c’erano ancora i gatti che frugavano nei cassonetti.
Ad un tratto il lampione sulla testa di George Martens ebbe un fremito
La luce sfarfallò e George temette che si sarebbe spenta abbandonandoli nella più tetra e fredda oscurità.
Ma non successe nulla di ciò.
E i due giovani continuarono ad allontanarsi per i vicoli della città con la strana impressione di essere seguiti.