5746 x 923. Lo faccio a mente, in colonna. Non so farlo, sono discalculico. Non saprò mai se il risultato è giusto. Non mi importa. È per non pensare. Di notte è terribile, la testa corre, ricorda. Allora conto.
8603 x 58. 9987 x 501. 3061 x 294.
La mattina è sempre peggio.
Farò dello sport, decido.
Prendo la moto, vado al Negozio dello Sport.
Voglio fare sport, dico.
E che altro sennò?, dice la commessa.
Si faccia gli affari suoi, rispondo.
Lei se la prende. Mi manda da un’altra commessa.
Sono Serena, come posso aiutarti?
Mi crolla per terra un pezzo di anima. Di tutte le donne al mondo, la commessa doveva avere proprio il tuo nome. Sembra una presa in giro. Come tutto il resto. Anche questo non significherà niente. Solo un’altra frustata. 7895 x 852. Per non pensare. A quel sorriso, a quegli occhi giganteschi. Me lo aveva detto un amico, folle ma bravo ad amare: gli occhi grandi sono quelli che fregano. Perché ci vedi dentro il mondo, il senso di ogni cosa, il futuro, il passato, il posto in cui tutto converge.
Ti senti bene?, ha chiesto Serena. Ma non la mia.
Devo fare dello sport, ho detto.
Quale?
Non lo sapevo.
Uno a caso, dico.
1596 x 312.
Che richiesta bizzarra, dice.
836 x 533.
Qual è quello che toglie il dolore?, chiedo.
Lei ci pensa su. Io non voglio pensare: 2070 x 306, lo faccio in colonna, a mente. Non so contare. Mi ci perdo dentro. Non importa. Meglio così.
Torno a casa con due guantoni. Non c’è nessuna Serena qui, a chiedermi come potermi aiutare. Non più.
7958 x 4683. Fa un numero immenso.
Il giorno dopo mi arriva il sacco. Gli faccio un cappio, lo impicco alla trave.
Il dolore che ricevi, lo ridai indietro: è il meglio che posso fare, aveva detto Serena. Non la mia.
Mi impegno. Fa solo male. Alle nocche, ai polsi, alle braccia, alle spalle, alle gambe, alla testa. Sudo anche le lacrime. Dentro sono un deserto. Ma la sabbia resta addosso anche quando finisce il mare.
Picchio. Picchio duro, picchio tutto quello che mi passa per il petto. Picchio i vecchi pile che usavi per dormire; picchio la tua paura di calpestare le grate; picchio quella volta in montagna; i bigliettini che mi infilavi in camera di nascosto prima di partire; i giorni al sole; le canzoni che non posso più ascoltare. Picchio tutte le cose che ci rimanevano da fare. E poi continuo a menare duro, a caso, senza sapere più cosa, senza pensare; è perfetto. Per un attimo non fa più solo male. Fa così male che fa bene. È quel dolore che aggiusta, i muscoli che diventano forti e che poi si curano.
Solo che poi ho bisogno di respirare e allora mi lascio cadere. E mi stendo per terra, abbandonato come i morti. Sul soffitto non c’è niente. È insopportabile.
Io, che non potrò più esserti vicino, questo vuoto non lo posso sopportare.
E allora conto. Non c’è altro da fare.
Unmilionecinquecentonovantaseimilasettecentoventotto per quatrocentomilaseicentotretadue. Questo dovrebbe essere abbastanza. Sì, questo per un po’, mi dovrebbe salvare.
Carolina Armonti